Parole spalancate. La città dei poeti: Genova e la poesia del mondo

Presentazione e proiezione del film “Parole spalancate la città dei poeti” di Maurizio Fantoni Minnella, che ha come epicentro Genova e il suo Festival Internazionale, il primo elemento di un trittico cinematografico sulla poesia in Europa.

Ogni anno, da quattro lustri, i poeti di tutto il mondo s’incontrano a Genova, metropoli del Mediterraneo, antico crocevia di popoli e culture, in una gioiosa babele di lingue diverse, flusso inarrestabile di suoni, di poemi che sono parole spalancate sull’utopia della ricostruzione poetica dell’universo.

Parole spalancate non è un film sui poeti ma sulla poesia. E il linguaggio filmico scelto per rappresentarla (ammesso che essa sia davvero rappresentabile) è quello della pura oggettività. Nessuna ricostruzione. I poeti non parlano della poesia ma, semplicemente, la pronunciano, la recitano rendendola viva nello spazio e nel tempo che la grande città mediterranea offre e suggerisce. Ecco dunque Mohamed Sghaier Ouled Ahmed, poeta ribelle tunisino, camminare lungo le mura del porto e sorprendersi di fronte alla magnificenza della Lanterna al punto di compararla al più alto dei minareti, o Haghit Grossman, giovane israeliana, che insegue i suoi fantasmi poetici nello spazio di un chiostro medievale, Luljeta Lleshanaku, albanese che, nel passeggiare nei pressi della stazione marittima, ritrova la nave sulla quale parte della sua famiglia fuggì dal proprio paese per “una vita migliore”. E ancora, vediamo Esther Niwemukobwa, ruandese, recitare con infinita dolcezza una ninna nanna ricordando il genocidio del suo popolo, e Carmen Boullosa, scrittrice e poetessa messicana, che alla solitudine e all’immensità dell’Albergo dei Poveri, risponde con un indimenticabile monologo sulla povertà e la ricchezza dell’antica Genova.

Parole spalancate è altresì un’opera corale nella quale talora si fondono poesia e musica, oriente e occidente, improvvisazione e recital poetico, a riprova della valenza espressiva di uno stile rigoroso, sorta di “pedinamento del reale nel suo farsi e disfarsi, il più possibile vicino alla verità delle cose”, che l’autore di questo film persegue fin dagli esordi e difende come scelta di stile, ma anche come etica dello sguardo.