“Nessuna parola dice di noi”: l’autrice Gaia Manzini, la direttrice editoriale Beatrice Masini e l’editor Giulia Ichino raccontano il romanzo da poco uscito per Bompiani.
Il titolo del romanzo, Nessuna parola dice di noi, appare come una negazione di quel che normalmente siamo abituati a pensare, cioè che siano proprio le parole a definirci. Com’è nata l’idea del titolo e che significato ha?
Gaia Manzini: Il titolo di questo libro, almeno nelle fasi di lavorazione, era un altro. In un primo momento, il titolo, per me, avrebbe dovuto legarsi al nome della protagonista: Ada è un nome che abbraccia la nostra tradizione letteraria, ma incontra anche Nabokov, ma soprattutto è un nome palindromo che suggerisce un movimento circolare e questo movimento di ritorno e chiusura del cerchio è quello che compie Ada nell’arco narrativo del mio romanzo. Tuttavia, parlando con Giulia Ichino, ho capito che quel titolo sarebbe risultato parziale, non avrebbe coinvolto gli altri personaggi della storia. È stata proprio Giulia a mettere in luce la centralità delle parole nel testo. Quando un autore lavora per molto tempo su una stessa storia fatica a prenderne distanza, a metterlo nella giusta prospettiva. Trovo che uno degli aspetti più affascinanti del lavoro editoriale sia proprio questo: consegnare il proprio libro a qualcuno di fidato che sappia restituire una prospettiva inedita su quello che si è scritto, e riesca a mostrare all’autore quei sentieri seguiti inconsapevolmente lungo il proprio cammino di scrittura. Nel libro c’è un’espressione sulla quale tornavamo tutti: “il bordo tagliente delle parole”. Ho cominciato a ragionare intorno alle parole, alla loro ambiguità e al rapporto così particolare e indefinibile che Ada ha con Alessio, ma anche con sua figlia.
I figli nascono innanzitutto dentro una narrazione e molto prima che vengano alla luce. Prendono vita nelle nostre proiezioni (come saranno? Quali doti, quali tratti del carattere? Saranno alti o bassi? Estroversi o timidi? Gli piacerà la matematica? E i libri?). Ada non ha conosciuto questo tipo di narrazione nei confronti di sua figlia Claudia, perché Claudia è arrivata troppo presto, in modo traumatico, dentro una specie di afasia. Ada non ha le parole per dirsi come madre neanche dopo nove anni e non conosce neppure le parole che raccontano il suo futuro: le capita di trovare un lavoro, di buttarsi nel mondo, ma saranno gli altri a consegnarle una versione di sé stessa fino a pochi mesi prima inimmaginabile. Non pensava Ada di avere del talento, di essere davvero brava in qualcosa, di poter alzare lo sguardo. Quando incontra Alessio la sua giovinezza ricomincia da capo: si sente diversa, si sente viva, vuole riprendersi tutto quello a cui ha rinunciato dai suoi diciassette anni, quando è diventata madre di Claudia. Non ha bisogno dei confini delle definizioni, vuole nuotare nel mare delle possibilità. Alessio è un collega, è un amico, è omosessuale, ma è anche molto di più, è tutto l’amore che non ha provato fino a quel momento. L’animo è informe, diceva Montale, non esistono parole che ci definiscano e dicano davvero le nostre emozioni: è giusto così, è giusto che ci siano nel nostro animo luoghi evocabili ma non definibili. Le parole ci servono davvero per trovare la nostra collocazione nel mondo: è quello che farà Ada alla fine del suo percorso.
Giulia Ichino: Gaia dice bene, il titolo stava nascosto nel cuore del romanzo, è lì che l’abbiamo trovato e ha subito risuonato con tutta la sua forza. Ada con le parole gioca, le smonta e le rimonta da copywriter professionista. Eppure sperimenta il loro limite, l’impossibilità – a tratti – di esprimere con le parole la complessità profonda dell’esistenza. Ma non si arrende.
La prosa del romanzo è caratterizzata da un linguaggio intenso e particolarmente curato. Com’è stato lavorare a questo testo dalla prospettiva dell’autrice, dell’editor e della direttrice editoriale?
Gaia Manzini: La prima cosa che ho trovato è stata una voce. Era una voce giovane che parlava in prima persona; piena di vibrazioni e incertezze, molto simile alla mia voce da giovane. Ho deciso subito di usare il passato prossimo che è un tempo verbale molto vicino al parlato, capace di regalare alla prosa un sapore contemporaneo. Volevo scrivere una storia che appartenesse all’oggi e che coinvolgesse il lettore attraverso la temperatura emotiva. In questo senso ho cercato la fluidità, prediligendo spesso l’asindeto, evitando le digressioni e le formulazioni letterarie o intellettualistiche, e lavorando moltissimo sull’ellissi e i non detti. Lo stile doveva riflettere la psicologia della protagonista che vive il trauma di una maternità in adolescenza non in modo davvero cosciente, ma muovendosi nel territorio del rimosso.
Giulia Ichino: Tutta la cura delle parole, in questo libro, si deve a Gaia. È stata, anzi, una delle prime cose che abbiamo notato leggendo il libro quando ci è stato proposto per la pubblicazione: erano pagine sicure, sorrette da una lingua fresca ma attentissima, capace di generare chiaroscuri di forte intensità. Il lavoro con Gaia non ha riguardato tanto lo stile quanto la struttura, con lo scopo di aggiungere un paio di pennellate importanti per la pienezza dei personaggi.
Beatrice Masini: Non si può essere in troppi a lavorare su una stessa storia, dunque quando l’editor avvia lo scambio con l’autore è bene farsi indietro e stare a guardare dal bordo del sentiero, lasciando camminare gli altri davanti a sé per raggiungerli poi a lavoro finito. Peraltro la voce, come dice Giulia, c’era, ed è questa la cosa più importante. (Almeno per me, e certo per un libro intimistico, con una protagonista così nitida nei suoi dubbi.)
Qual è la storia dell’immagine di copertina e come siete arrivate a questa scelta?
Gaia Manzini: Appena mi sono arrivate le varie proposte dalla casa editrice ho capito che questa era la copertina perfetta, non solo per l’indubbia eleganza grafica, ma anche perché raccontava visivamente la mia protagonista: una donna che ancora non ha una forma definita, che ancora deve trovare i suoi contorni precisi, il suo posto nel mondo.
Beatrice Masini: La copertina era subito lì, bam, nella prima tornata di proposte fatte da Francesca Zucchi a cui era stato affidato il compito di trovarla. Vista e riconosciuta. Tutti concordi nel dire che era quella giusta, anche l’autrice (spesso si dissente e si discute a lungo sulle copertine, questa volta no), ma come succede quando le cose filano troppo lisce abbiamo scoperto che quell’immagine non si poteva utilizzare. Delusione generale. Allora Zucchi ha chiesto all’artista di realizzarne una apposta per il romanzo, ed eccola qui. Semplice, netta, quasi tagliente come è Ada in certi momenti della sua storia.
La storia di Ada e Claudia racconta di una maternità vissuta con profonda ambivalenza da parte della protagonista, divisa tra l’istinto primordiale di prendersi cura della sua bambina e il desiderio di evadere da una responsabilità soffocante, che le impedisce qualsiasi spontaneità nell’accudimento; in generale e al di là del romanzo, quale pensate che sia oggi la narrazione prevalente di maternità e com’è importante raccontarla? Qual è il ruolo della nonna-tutrice nel romanzo?
Gaia Manzini: La mater familias nel romanzo ha un ruolo contrappositivo, rappresenta un materno tradizionale, incentrato sul dovere e molto poco sull’emotività. Come ogni donna, Ada è chiamata a mettere in discussione il mondo da cui viene per trovare la sua strada attraverso il distacco e poi il ritorno che porta con sé un rinnovamento.
Il tema della maternità è un tema universale che troverà sempre infinite narrazioni. In fondo anche Anna Karenina può essere letto come il romanzo di una madre dimidiata, una eroina divisa tra i propri doveri e i desideri della donna che è risbocciata in lei. Oggi penso a libri importanti come Maternità di Shila Heti, La figlia unica di Guadalupe Nettel, Il lavoro di una vita di Rachel Cusk. La maternità è un luogo di ambivalenze e contraddizioni perché quando nasce un bambino nasce anche una madre, una donna che deve imparare a essere madre, vale a dire a trovare un equilibrio tra la cura e le istanze personali; una donna che deve trovare l’alchimia per integrare il figlio nel proprio percorso identitario. La maternità è una conquista in questo senso. Un tempo si chiedeva (imponeva?) a una donna che partoriva di rinunciare alle proprie ambizioni. Credo che nelle narrazioni di oggi – seppur nella diversità di stili e visioni – prevalga la rivendicazione di un dubbio, l’urgenza di raccontare un disagio. Le donne cercano una realizzazione, “una vocazione” avrebbe detto Natalia Ginzburg, cercano il loro posto nel mondo, a prescindere dai figli. Nella complessità che accogliamo tutti come una ricchezza, perché noi donne dovremmo scegliere? Perché non dovremmo volere tutto?
Giulia Ichino: Il coraggio con cui Gaia mette in scena le ombre e le ambivalenze insite nella relazione tra madri e figlie è una delle maggiori ragioni di forza del romanzo. In Italia abbiamo più che mai bisogno di sentirci raccontare la femminilità e la maternità in modo laico e limpido, e questo romanzo trova le parole per farlo senza chiudersi sull’amarezza e il rancore che a volte accompagnano la narrazione delle maternità difficili, ma anzi aprendosi a improvvisi momenti di tenerezza.
In che modo il rapporto con Alessio aiuta Ada a conoscersi e a riconoscersi, accettando le diverse parti di sé?
Gaia Manzini: Quando siamo giovani accade spesso che rinasciamo dentro le parole degli altri. Sono quelli che ci sanno vedere, che sanno capirci, molto meglio di quanto non facciamo noi stessi. Alessio fa rinascere Ada dentro le sue parole, dentro il suo sguardo. E non solo, Alessio mostra Ada cosa vuol dire prendersi cura di un’altra persona, con piccoli gesti d’affetto, piccole attenzioni, e attraverso il contatto fisico. È qualcosa che lei deve imparare: trovare i gesti che la riconnettano alla propria sfera emotiva. Credo da sempre nel potere taumaturgico dell’amicizia e del contatto fisico. Ada potrà tornare da Claudia, abbracciarla, sentire la reciproca appartenenza solo dopo aver conosciuto Alessio.
“Avrei voluto dirgli che la vita te la porti dentro nella testa e la giovinezza non è qualcosa di immutabile e levigato, creato per rimanere intatto come ci immaginiamo da bambini. La giovinezza si trasforma fino a quando ti accorgi di essere una persona nuova”. Cosa vuole dire Ada al lettore con questo pensiero formulato sul finire del romanzo?
Gaia Manzini: La giovinezza è un percorso pieno di incanto ma anche di sofferenza. Non credo nelle mitizzazioni: l’idea di giovinezza intatta nella memoria come una sorta di età dell’oro. Le esperienze che facciamo da giovani ce le portiamo dietro come un metro per misurare il mondo fin quando non trasformiamo i traumi e le gioie in nutrimento per cambiare, per scegliere la nostra strada e poi guardarci indietro e riconoscerci nuovi, pronti a una seconda vita.