Intervista a Francesco Costa, autore, giornalista e vicedirettore de Il Post, in occasione del nono incontro di librinudi.
I tuoi libri sugli Usa – Questa è l’America (2020) e Una storia americana (2021) – nascono da una newsletter. È un percorso particolare per un autore. Ci racconti la tua storia di scrittore?
È vero che è un percorso insolito, ma forse non è poi così diverso dai percorsi che nascono dagli articoli pubblicati su un foglio di carta, come è consueto per chi lavora nel giornalismo: sempre di parole scritte parliamo. Il punto è che – un po’ per ragioni anagrafiche, un po’ per scelta – la mia carriera giornalistica si è sviluppata quasi interamente in quelli che una volta si sarebbero definiti “nuovi media”, o comunque in contesti lontani dalla carta: i giornali online, i social network, le newsletter, i podcast. Credo che diventerà consueto vedere scrittori e scrittrici muovere i loro primi passi su media come questi, semplicemente perché il pubblico mostra di apprezzarli sempre di più. Sono contemporanei, ecco. Avevo pensato a lungo alla possibilità di raccontare in un libro il lavoro di viaggi e inchieste sugli Stati Uniti in cui ero stato immerso negli anni precedenti alla scrittura di Questa è l’America, ma non mi ero risolto a farlo davvero finché non ho cominciato a parlarne con Igor, che ha sciolto le mie insicurezze e mi ha indicato la direzione giusta.
Consideri i tuoi libri più l’approdo di molte differenti esperienze editoriali o un punto di partenza? Che differenza c’è tra scrivere un libro e scrivere un articolo (a parte, ovviamente, la lunghezza)?
Quello che ho capito, a un certo punto, è che ogni storia deve trovare un suo abito: che ci sono storie che sono un articolo, altre che sono un post, altre che sono una newsletter, altre ancora che sono un podcast, altre che non possono che essere un libro. Anche per questo non ho voluto che i miei libri fossero un collage di cose pubblicate altrove, per quanto a volte riprendano storie che avevo raccontato in altre forme: un libro è un libro, e solo in un libro è possibile trovare il passo, lo spazio necessario per approfondire vicende stratificate e complesse prendendosi tutto il tempo e lo spazio necessario. Sicuramente le altre esperienze mi sono state utili: su tutte gli undici anni di lavoro al Post, dove lavoriamo moltissimo sulla qualità della scrittura. A costo di dire una banalità, mi sembra che il libro richieda una cura straordinaria della scelta delle parole e del ritmo, molto più di quanto accada con contenuti più volatili o multimediali.
Un autore che può contare su una community come la tua potrebbe valutare di percorrere la strada del self-publishing. Quali sono invece le ragioni che ti hanno spinto a scegliere di pubblicare con una casa editrice? Quali benefici ha comportato secondo te questa scelta?
Per quanto all’inizio potessi avere dei dubbi sulla possibilità – e soprattutto sulla mia capacità – di scrivere libri, sono sempre stato sicuro che eventualmente lo avrei fatto con una casa editrice. Non ho nulla contro il self-publishing, ma credo che fare un libro richieda professionalità che vanno molto oltre quelle di un autore. È vero che siamo nell’era dell’autoproduzione, ma la sensibilità, la cura e l’esperienza di una casa editrice non sono replicabili, così come il lavoro industriale e di artigianato che sta dietro ogni titolo. Senza una casa editrice i miei libri non sarebbero mai usciti, in prima istanza: sapere di poter contare su quel tipo di supporto è stato determinante nel decidere di scriverli. E se alla fine avessi deciso di scriverne comunque, sono sicuro che il risultato sarebbe stato peggiore.